08/02/2012
Danza e Disability-Danza
Intervento di Francesca Pedroni alla Tavola Rotonda di DifferAbility.
Mind the difference. La bellezza della differenza.
Pubblichiamo l’intervento scritto da Francesca Pedroni, per la tavola rotonda "Mind the difference, la differenza sta nell'occhio di chi guarda"; tenutasi il 5 dicembre 2011 su iniziativa dell’Associazione Culturale Viaggiatori dell’Anima, all’interno del progetto DifferAbility.
“Mind the difference” è un titolo che rispetto al settore di cui mi occupo, la danza, riporta immediatamente in primo piano un concetto cardine del Novecento. La pioniera della danza moderna del primo Novecento, Isadora Duncan, rivoluzionò l’arte del movimento, facendo spirare sull’idea stessa di danza un vento di libertà fino ad allora sconosciuto. Un’artista che rivelò la bellezza di poter danzare senza obbligatoriamente utilizzare passi predefiniti, ricercando piuttosto in se stessi una nuova armonia espressiva. In quella che lei chiamava “la danza del futuro” esaltava il corpo umano, come possibilità espressiva dell’anima, la “natura” e il “naturale” come dimensione originaria e universale, fondando scuole il cui obbiettivo era “sociale ed educativo”. Un credo che la fece ammirare in tutto il mondo. Grandi ballerini classici russi, come la leggendaria Anna Pavlova, dissero dopo averla vista che la danza non sarebbe più potuta essere la stessa.
La lezione di Isadora contribuì non poco a rinnovare dall’interno il mondo accademico: l’avventura dei Balletti Russi di Diaghilev con la messa in luce dell’individualità del personaggio già ne sono esempio. Fokine, il coreografo di balletti cardine di inizio Novecento come “Petrushka” e “Uccello di fuoco”, promulgò una riforma nel 1914 dove mise l’accento sulla necessità di “non formare combinazioni di passi già pronti e stabiliti, ma di creare in ogni caso una forma corrispondente al soggetto, una forma la più espressiva possibile”… Questa attenzione alle caratteristiche del ‘soggetto’ significano già l’avvento di una danza curiosa delle differenze: Petrushka, la triste maschera russa, quel meraviglioso personaggio sensibile quanto fragile, interpretata dal dio della danza dell’epoca, Vaslav Nijinskij, avrebbe danzato in armonia con la propria personalità: un corpo ripiegato su se stesso, le spalle cadenti, i piedi indentro, una danza che raccontava un’anima.
Se l’attenzione alle differenze spinge a inizio secolo gli artisti a ricercare una danza che sia adatta al personaggio, nel corso del Novecento l'occhio sulla diversità porterà sempre più coreografi a lavorare in un modo nuovo con i propri danzatori, spronandoli a far emergere nel lavoro non solo le loro potenzialità creative, ma direttamente la loro individualità, nuda e cruda, al di là del riparo in un personaggio esterno a cui dare volto.
Dai protagonisti della ‘modern dance’ americana, ai fautori della ‘danza libera’ tedesca dei primi decenni del Novecento come Rudolf Laban e Mary Wigman, a coloro che cominciarono a utilizzare con i loro interpreti l’improvvisazione e composizione come metodo creativo, ai grandi del tanztheater e a molti altri il secolo scorso ha fatto nascere una nuova visione dell’interprete, artista e spesso co/autore, senz’altro individuo portatore in scena della propria unicità.
Attraversando il secolo al galoppo, come non avere negli occhi il tanztheater di Pina Bausch, un’artista che ha dedicato il proprio lavoro a mettere in luce “ciò che muove le persone”? Diceva: “nei miei spettacoli ognuno è se stesso. Certe cose si possono dire con le parole, altre con i movimenti. Ma ci sono anche dei momenti in cui si resta senza parole, completamente perduti e disorientati, non si sa più che fare. A questo punto comincia la danza e per motivi del tutto diversi dalla vanità. Il tuo io è ciò che il corpo rivela nelle relazioni con le persone. E parlare con il corpo è così naturale, meraviglioso”.
Essere attenti alle differenze ha significato per Pina Bausch e per molti altri formare compagnie in cui i danzatori non rispondono a un ideale canone estetico, ma dove ogni interprete è portavoce di una propria bellezza e capacità espressiva. La compagnia di Bill T. Jones, afro-americano, sieropositivo dichiarato, paladino della differenza come valore portante, è da più di vent’anni un esempio eclatante di cosa significhi danzare a partire non solo da corpi, ma da potenzialità umane, cognitive, psicologiche non omologate. La scoperta di quanto la messa in luce di ciò che differenzia i singoli nel lavoro comune arricchisca umanamente e artisticamente i partecipanti tutti, di quanto la differenza sia un valore aggiunto e non una perdita, ha portato coreografi, registi, docenti a spingere oltre la ricerca. Se è notissimo il lavoro di Bob Wilson con portatori di handicap, si pensi nei primi anni Settanta a “Deafman Glance”, "opera del silenzio" con attori sordomuti, tanti altri sono i percorsi nella danza e nel teatro in cui il lavoro con interpreti diversamente abili è cruciale nella ricerca. In Inghilterra gruppo di riferimento è la compagnia Candoco, fondata nel 1991 da Celeste Dandeker e Adam Benjamin. Da vent’anni rappresentano una modalità altamente professionale sulla possibilità di formare gruppi mixability. La loro compagnia ha sempre avuto al suo interno danzatori abili e diversamente abili, e le loro creazioni sono un esempio lampante di integrazione e di sviluppo creativo. Tra i loro interpreti è indimenticabile David Toole, un danzatore straordinario, eppure privo di gambe. La sua qualità di movimento, fluida, potente quanto delicata, lo ha fatto diventare anche uno degli interpreti chiave di alcuni lavori dei DV8 di Lloyd Newson, di cui il film “Cost of Living”, reperibile (è in commercio), merita di essere visto per comprendere l’impatto del mixability.
Chi però ha dato un rilievo forse ancor più pungente e approfondito alla visione dell’interprete come essere umano, è negli ultimi anni Alain Platel, fondatore in Belgio dei Les Ballets C de la B, l’artista a cui guardare oggi come il vero grande erede di Pina Bausch, ora che lei non c’è più. Non perché Platel ne sia un allievo, il suo percorso è indipendente, ma perché ci tocca l’anima con la stessa acutezza e forza. Si esce da Platel, capendo sempre qualcosa in più della propria vita, del mondo in cui si vive, della relazione con gli altri. E questo fa la differenza. Platel arriva al teatro quasi per caso. Ha alle spalle una formazione da ortopedagogista, inizia a fare teatro da autodidatta, formando con amici e con la sorella un collettivo. Il suo percorso di lavoro con bambini diversamente abili ha segnato fortemente la qualità della sua ricerca. Durante le riprese del documentario “L’umanità in primo piano” realizzato come autrice per il canale Classica tv, produttore del programma, Platel dice: “Il mio passato come psicologo, quando lavoravo con bambini disabili, influenza costantemente il mio lavoro. Abbiamo sviluppato una sorta di linguaggio fisico, che per alcuni evidenzia questo legame con persone diversamente abili. Rimanda alla ricerca che alcuni danzatori stanno facendo per trovare una forma di danza, un linguaggio fisico, con cui esprimere sentimenti universali, nei quali gli esseri umani possano riconoscersi”. Che siano o non siano presenti nei suoi lavori (a volte accade, altre no) persone diversamente abili, Platel ha saputo mettere al centro del suo lavoro danzatori, artisti che ci confrontano con le difficoltà psico-fisiche dell’essere umano, con una sincerità e una capacità di svelamento fuori dal comune. E’ a Platel che bisogna guardare per ritrovare quella capacità di scrutamento e di messa a fuoco di “ciò che muove” le persone, ma anche per tenere vivo, insieme alle proposte di altri artisti, come in Italia Virgilio Sieni per la sua ricerca con i non vedenti; Antonella Bertoni per il toccante, ironico “Le fumatrici di pecore”, Alessandro Sciarroni per il pungente, indimenticabile “You, girl”, il nostro sguardo sulle differenze, su ciò che le differenze ci svelano e ‘regalano’ con la loro, mai, proprio mai, scontata bellezza.
Si ringrazia per la gentile concessione delle foto:
"Out of Context" di Alain Platel, andato in scena al festival Torinodanza (foto di Chris Van Der Burght)
Antonella Bertoni e Patrizia Birolo in
"Le fumatrici di pecore" coreografie di Antonella Bertoni e Michele Abbondanza (foto di Santa Castignani).
Giuseppe Comuniello e Dorina Meta in
"Oro" di Virgilio Sieni
Francesca Pedroni